Il Consiglio nazionale ha trattato settimana scorsa – e purtroppo bocciato con uno spiacevole colpo di scena finale – l’USES, acronimo di Ulteriore Sviluppo dell’Esercito. Un progetto significativo di riforma delle nostre forze armate che mi ha visto al fronte quale relatore della Commissione della sicurezza. Si tratta di un proseguo del percorso intrapreso con la riforma XXI, siamo alla quinta nell’ultimo ventennio, con adattamenti volti a correggere lacune emerse e a migliorare aspetti centrali per il funzionamento futuro del nostro esercito. Si è intervenuti con modifiche sostanziali nei settori dell’istruzione, della capacità di reazione e di mobilitazione.L’esercito è oggi una delle poche realtà capaci di unire fattivamente la Svizzera. Una risorsa strategica a disposizione di tutto il Paese. Un impegno comune a favore dello Stato da parte di cittadini, ma anche cittadine, provenienti da ogni angolo del Paese. La riforma lo vuole ulteriormente radicare nelle regioni, regionalizzando la prontezza e di conseguenza la logistica. Va ricordato che USES per il Ticino ha risvolti positivi con la conferma di tutti gli stazionamenti, soprattutto logistici e d’istruzione, e con investimenti che superano i 100 milioni tra Monte Cenere, Isone ed Airolo.
Nell’odierna società della comunicazione immediata e globale, lo scenario geopolitico internazionale è noto. La crescente instabilità rappresenta una sfida anche per la Svizzera. Le minacce sono definite in termini generali, ma i loro sviluppi e il loro realizzarsi sono molto difficilmente prevedibili. In un contesto di significativo riarmo da parte di tutti i Paesi, la Svizzera vuole riformare il proprio esercito con l’obiettivo di avere a disposizione forze armate capaci di proteggere il Paese e la popolazione in caso di situazioni straordinarie. Grande importanza è anche data agli impegni sussidiari a favore delle autorità civili in caso di catastrofi o in occasioni straordinarie, momenti in cui le forze pubbliche e i privati non dispongono di risorse sufficienti. Parimenti continuano le apprezzate missioni di promozione della pace.
Nel 2013, il 73% degli aventi diritto di voto ha ribadito la volontà di avere un esercito di milizia, confermando l’obbligo di prestare servizio. Questa riforma esclude proposte di professionalizzazione integrale o di trasformazione secondo un modello di militi integralmente in ferma continua. Al contrario, si focalizza sul cittadino-soldato con un sistema di mobilitazione capace di chiamare in servizio entro 10 giorni fino a 35’000 militari equipaggiati in modo completo.
Si vuole un esercito credibile e capace di assolvere le missioni che gli sono attribuite. Non tutto è definibile e pianificabile a priori. Serve una struttura capace di rispondere a scenari ipotizzabili e plausibili. Riconoscendo che per taluni USES rappresenta un ulteriore riduzione dell’efficacia dell’Esercito (a destra), mentre che per altri vi è ulteriore margine per ridimensionare le forze armate (a sinistra), nel complesso la riforma è condivisa.
Confermata la volontà di disporre di un esercito con 100’000 uomini (140’000 effettivo reale) con un budget annuale di almeno 5 miliardi, il dibattito al Nazionale ha riservato un’imprevista e spiacevole sorpresa finale. L’UDC ha – in maniera molto irresponsabile – sabotato il lavoro svolto e, in un’alleanza contro natura con la sinistra, respinto la riforma. La motivazione ufficiosa è quella di voler ancorare i citati 5 miliardi nella Legge. Un argomento prettamente politico-partitico poiché in nessuna Legge si sanciscono importi finanziari. Va sottolineato che i 5 miliardi sono garantiti da una solida maggioranza di centro-destra in occasione dei preventivi e assolutamente non controversi nei prossimi anni. Ora, per non gettare tutto al vento, occorre trovare un compromesso prima con il Consiglio degli Stati e poi con l’UDC. La riforma dell’esercito non va trasformata in oggetto elettorale. Sinistra e detrattori dell’esercito ridono. Alleanze contro natura come quelle vissute ledono fortemente alla credibilità del nostro esercito che non va sacrificato in virtu’ di interessi elettorali.